“Makalu non dormire! Non dormire Makalu!” Questo si gridava in continuazione Makalu Gau, uno degli alpinisti rimasti intrappolati sopra al Colle Sud quella tragica notte del 10 maggio 1996.E mentre lo faceva agitava come un pazzo i moncherini che gli erano rimasti come “premio” di quella folle corsa, degli spezzoni di bracccia gonfi e scuri, ancora tumefatti, a dieci anni di distanza da quel 10 maggio 1996 che aveva segnato la sua e la vita di altre persone. Scorriamo così il susseguirsi di quei tragici ed assurdi eventi accompagnati dal racconto dei portagonisti come fossimo in un documentario “all’americana” trasmesso da National Geographic Channell.
Al di là dell’ambientazione troppo didascalica e troppo senzazionalistica, tipica dei media americani mi ha colpito molto il tentativo di giustificare la loro posizione che ancora hanno queste persone; pazienza aver letto libri, ma sentirli di persona raccontare ancora eccitati certi momenti (la più pazza sembra essere ancora Sandy Hill Pittman, la quale peraltro sembra essere quella meno rovinata dal freddo) fa un pò impressoine.
Ad un certo punto Beck Weathers, il medico che voleva coronare il sogno di scalare tutte le sette sorelle afferma una corsa di questo tipo: “Tornare dalla propria famiglia, sapere di avere dei figli mia ha fatto venire voglia di vivere..”. E mentre lo faceva gesticolava con quello che rimaneva del suo braccio destro, tagliato fino al gomito, e del suo braccio sinistro, tagliato al polso; guardavo il suo naso ormai ridotto ad una proboscide tumefatta e pensavo a cosa avrebbe potuto dare alla sua familia in quello stato: quale aiuto concreto, ridotto ormai ad un uomo senza braccia, quale insegnamento potrà mai dare un uomo così ai propri figli?
Penso sempre più che l’alpinismo sia un gioco rischioso e che ormai non abbia più nessuna giustificazione, se non la soddisfazione del proprio ego; sta a noi capire i limiti a cui possiamo arrivare.