In principio era la corsa.
Quella naturale, spontanea, quella dei bambini per intenderci; quella insita atavicamente nel nostro DNA; del resto l’uccello vola, il pesce nuota e l’uomo corre diceva Emil Zatopek, l’unico uomo capace di vincere 5000, 10000 e maratona all’interno della stessa kermesse, i Giochi Olimpici del 1952.
Un paio di scarpe, pantaloncini corti, maglietta e via, che fosse “La Luciolada” o “Quattro passi tra le vigne” si registrava il pienone alle corse organizzate in ogni dove, complice la crisi energetica che induceva a lasciare le auto a casa e a muoversi per risolvere la domenica.
Poi venne il jogging ed il suo modo assurdo e molto americano di restare in salute pensando di fare sport, rimbalzando sui talloni a ritmo lento: praticamente quello che fa il 90% delle persone che vedi in ciclabile e che poi tornano a casa con indicibili mal di schiena.
Nacque così l’esigenza di scarpe più protettive; il colpo grosso fu messo a segno dalla Nike con le Air MAX, che subito divennero uno status symbol; al liceo le avevano i paninari e le usavano per il Giro al Sas; prorpio come adesso fanno quelli che si comprano le Salomon colorate, sempre pulite e splendenti in giro per le vie del centro.
E dopo anni di oblio la corsa, soppiantata da sport più divertenti e costosi è tornata in auge, guarda caso in tempi di crisi economica, dove anche i 50 € al mese per la palestra cominciano a pesare. Ci si è messo pure il trail, ovvero la corsa in montagna ma secondo una declinazione diversa e un po’ naif; corsa sì ma senza troppo agonismo e con molto entusiasmo; corsa in compagnia ma anche solitaria e di resistenza estrema, dove ognuno è lasciato solo in compagnia della sua fatica, del suo dolore fisico e dei suoi demoni; e persone che magari non fanno neanche una gara all’anno o non conoscono i loro valori di soglia cardiaca corrono a iscriversi a prove fisiche estenuanti, oltre i 50 km con parecchio dislivello.
E la scarpa cambia, i pantaloncini si allungano fino a coprire i quadricipiti, le magliette generano calore o lo fanno evaporare, i calzini sono anche lunghi per aiutare il drenaggio del sangue esausto, per uscite di un’ora e mezza occorre avere sicuramente lo zaino idrico…. ma tutto questo serve veramente?
Lo pensavo ieri mentre indossavo i miei pantaloni lunghi da corsa comprati al mercatino della Mezza di Riva del 2005, la maglietta intima a maniche lunghe (a dire il vero non così lunghe oramai) della Craft (non quella delle sottilette) comprata nel 1997 per scendere in hydrospeed sul Noce ed il gilet gadget del Trofeo Cestari di scialpinismo del 2002. Tutta roba di qualità in pure plastiche derivate dal petrolio, ma che con l”uso che ne ho fatto mi hanno anche lavato la coscienza ambientalista.
Le scarpe le ho dovute cambiare però, perché quelle si consumano,si rompono, invecchiano; e mentre mio padre si segnava su una agendina tutti gli allenamenti per sapere quando era ora di cambiare adesso abbiamo Garmin Connect che ti dice che dopo 6-700km è ora di cambiare le scarpe.
Io mi sono fermato prima: dopo solo 400 km scarsi le mie Adidas Raven, con le quali mi trovavo molto bene, cadono proprio a pezzi.
Ho preso il modello nuovo, che pesa ben 20 grammi di meno (il 5%) e sembra abbia risolto alcuni difetti; la suola troppo debole (le ho provate oggi su asfalto sterrato con ghiaccio e neve) ed il sacchetto portalacci con il quale mi sono quasi ammazzato all’ultimo Duathlon.
Sempre per ritornare alla semplicità della corsa, il nuovo aggiornamento (6.500) del Garmin introduce nuove dinamiche di corsa che ti fanno scervellare, per capire se stai correndo veramente bene oppure no; sono in attesa di capire se in salita e discesa sono asimmetrico come penso…..