Eh sì, alla fine il virus è arrivato anche da noi. Nessuno fino all’ultimo voleva crederci, nessuno avrebbe mai immaginato una situazione del genere, eppure così è andata. Non abbiamo saputo imparare dagli errori altrui e ci siamo cascati dentro.
Lockdown, chiusura totale.
Negli ultimi giorni di lavoro, il 10 marzo, anche se poi ci sono andato pure venerdì 13, ho approfittato delle temperature miti per andare a Trento in bici, e me le hanno cantate per questo mio post su Facebook.
Il senso del mio post non è stato compreso: era da giorni, se non settimane, che gli sportivi si lamentavano di non poter andare in palestra o in piscina; la sequenziale chiusura di tutti i possibili posti di aggregazione e quindi naturalmente di contagio aveva lasciato tutti noi sportivi senza il nostro parco giochi. Ultimo giorno di piscina, un po’ avventato a dire il vero, lunedì 9 marzo. Nelle ultime convulse giornate avevano chiuso persino i parchi cittadini e lo sport all’aria aperta, per quanto ammesso in solitaria dai primi decreti, sembrava diventato il capro espiatorio. In presenza di un nemico invisibile e impalpabile, era facile prendersela con il primo sotto casa: ci fosse la stessa intolleranza verso i parcheggi in doppia fila o sugli stalli per disabili, sul mancato rispetto delle code, o sulla velocità delle auto nei paesi o sulle nostre strade, vivremmo in un mondo migliore.
I runner, i ciclisti, edonisti del terzo millennio dediti alla propria cultura fisica insensibili ai bollettini di guerra erano i nuovi untori, anche se non c’era nessun fondamento scientifico o logico o morale che giustificasse ciò.
Nel mio post volevo incitare a rivalutare la bicicletta come mezzo di trasporto, non come mezzo ludico; se tutti andassimo a piedi o in bici al lavoro non ci sarebbe più bisogno di andare in palestra a sudare. E la critica più feroce è stata argomentando che sarebbe stato pericoloso; critica arrivata da gente che fa 10.000 km all’anno!
Una delle tante ipocrisie di questo periodo di quarantena, in cui la gente, arrabbiata per essere stata privata delle libertà fondamentali, sfoga la sua impotenza contro il primo che passa sotto la finestra.
La cosa incredibile è che pur con uno zaino con i vestiti e il computer sulle spalle ho fatto i miei migliori tempi nel rientro a casa. Inutile dire che i maggiori rischi li ho corsi sulle poche strade trafficate, dove gli automobilisti non fanno i conti di trovare un ciclista, tanto più in queste situazioni con il traffico ridotto all’osso.
Così ci siamo rimboccati le maniche e ci siamo ingegnati per passare del tempo: già il primo fine settimana del 15 marzo è apparso chiaro che la quarantena sarebbe durata a lungo. Primo lavoretto: imbiancare casa, complice il brutto tempo. Fuori nevicava di brutto, sigh!
Certo che il tempo ci ha messo del suo a farci rodere il fegato: la mattina capitava di alzarsi con una vista così; neve fresca sulla Vigolana e temperature perfette per una sciata primaverile coi fiocchi, sigh!
Per fortuna fino al 20 marzo era ancora ammesso fare attività all’aria aperta, seppur sotto la vista inquietante e accusatoria dei vicini; la mattina avevo ripreso a correre nel bosco, non incontrando nessuno, a parte qualche runner tenuto a debita distanza. Su tutti l’amico Guido. Ci siamo fermati a 5 metri uno dall’altro sulla tagliafuoco sopra i Bindesi, raccontandoci di questa assurda situazione, sapendo che eravamo dei privilegiati a poter correre nei boschi. La vita in periferia ha le sue rivincite rispetto alle città mondane: non avremo il cinema vicino e il ristorante etiope (ma poi si mangia in Etiopa?, battutona!), ma abbiamo un intero territorio a disposizione.
Dopo ho cominciato a dedicarmi all’orto e al rifacimento del pollaio; purtroppo una secondo giro di vite a questa chiusura ha imposto un blocco totale anche degli approvvigionamenti e il lavoro è rimasto a metà.
Parallelamente è montata la polemica attorno ai runner; come detto i vari decreti prevedevano fino a venerdì 20 marzo la possibilità di fare movimento all’aria aperta in solitaria, ma uscire per una corsetta era diventato impossibile: il rischio era di vedersi esposto sul web alla pubblica gogna. Il mercoledì 18 marzo sono andato dalle api a Levico in bici, e mi sono sentito un delinquente. Ho scelto percorsi poco trafficati, i sentieri che conosco a menadito, ma ogni volta che mi avvicinavo a un centro abitato non sapevo cosa aspettarmi: abitanti con il forcone e la torcia pronti a bruciarmi sulla pubblica piazza? Forestali coi cani? Carabinieri a cavallo? Dovendo attraversare Levico ho incrociato due auto ed entrambi i conducenti mi hanno insultato sgommando via, non lasciandomi spiegare nulla.
Sì lo so, per me la bicicletta è un mezzo di trasporto, e allora? Mi dà fastidio dover rispondere a questa domanda, sempre.
Per fortuna il tempo era splendido e si poteva almeno giocare in giardino, nel silenzio più assoluto. Sì perché dalle case vicine non usciva nessun rumore: la gente preferiva stare in casa piuttosto che all’aperto, interpretando in maniera militaresca il concetto.
Il terzo fine settimana, quello del 21/3, il governo ha deciso un ulteriore blocco; vietati tutti, ma proprio tutti gli spostamenti, anche le corsette all’aperto sotto casa a distanza superiore alla “prossimità”, che di per sé è un termine facilmente interpretabile. La faccenda ha cominciato ad assumere toni quasi grotteschi: ciclisti che vanno al lavoro con un cartello sulla schiena per non venir insultati, atleti come Yeman Crippa insultati dalle finestre e poi bloccati dalla Polizia. Il mondo chiuso in casa sotto stress sembrava aver trovato finalmente un vero nemico su cui sfogare la propria frustrazione: il runner, o il ciclista solitario.
Così mi sono inventato un percorso nel giardino, con ripetute di 40-50″ con ostacoli da saltare. Un allenamento che si è rivelato estremamente faticoso, più di testa che di gambe: l’atleta lo fanno le gambe, il campione lo fa la testa.
La domenica ci siamo accontentati di viverla come si avrebbe fatto 100 anni fa: una polenta in compagnia e, complici le temperature inaspettatamente miti, un pranzo all’aria aperta. La nostra piccola gita fuoriporta (di casa).
La vita in quarantena cominciava a minare le menti delle persone; fioccavano i commenti sui social contro qualsiasi comportamento ritenuto colpevole, non tanto nella proliferazione del virus, ma avverso a un non ben precisato “senso comune“. Fare la spesa andava bene sì o no? E soprattutto cosa puoi comprare, beni di prima necessità? E se comperi una Coca Cola sei un untore? La mascherina va indossata oppure no? Si può uscire a far pisciare il cane 20 volte al giorno ma se sei sotto casa a fare scalini con la bici la gente ti da delle occhiatacce dalla propria auto. In tutto questo l’autorità ci metteva del suo conn iniziative discutibili: per esempio far girare tutto il giorno la camionetta dei pompieri con un altoparlante inquietante che ammoniva di stare a casa; attività inutile e fuorviante. Avesse almeno informato meglio sul virus o fornito numeri verdi o altro, invece una noiosa voce metallica, roba da film sulla DDR. Naturalmente se qualcuno provava a dire che non era il caso veniva tacciato di lesa maestà verso i sacri Vigili del Fuoco.
Il fine settimana di Pasqua non sapevamo più cosa inventarci per farsela passare: dopo aver consumato i marciapiedi intorno con ripetute noioisssime, fatto i workout da palestra a cielo aperto dovevamo sperimentare qualcos’altro.
Così abbiamo montato la tenda in giardino, complici le temperature veramente estive. Braciolata la sera, un buon bicchiere di rosso e poi tutti a nanna!
La notte è passata nel silenzio più assoluto: unica nota positiva del lockdown imposto dalle autorità. Fatta eccezione per un improvviso latrato dei cani vicini vero le 3: 30 (lupi? cinghiali?) e per il trattore del Claudio, il vicino contadino che anche di domenica parte per irrorare i frutteti alle 5:30.
Allo schiarire poi il concerto degli uccelli ci ha lentamente accompagnato nel risveglio: alle 6:30 sono uscito dal sacco a pelo e ho preparato la colazione.
Nel frattempo proseguivano le mie peregrinazioni verso il mio alveare a Levico, sotto lo sguardo incredulo di gente che mi vedeva passare in bici. All’inizio mi giustificavo sempre gridando loro “Vado dalle api!” poi ho cominciato a fregarmene. Un bel giorno , uscito dal parco di Caldonazzo, più o meno al Pineta, ho incrociato di nuovo la forestale. Mi ha fatto le solite domande stupito, ma questa volta si è convinto subito.
Approfittando della bella stagione ho avuto tempo di far ripartire il campo: infatti le ripetute ordinanze finalmente avevano lasciato spazio alle visite al proprio orto all’interno del comune, una cosa impossibile fino a poco tempo fa. Così, in assoluta solitudine e a turno, io e il vecio abbiamo cominciato a lavorarci su.
Nel frattempo qualcosa ha cominciato a muoversi man mano che i contagi diminuivano: sono state permesse le consegne a domicilio di ristoranti e fornitori vari, così il mio spacciatore di carne, l’Aneghe Taneghe, mi ha fornito di una bella costata per il nostro campeggio in giardino.
Nel frattempo sono state sbloccate anche le consegne di materiale vario, e abbiamo potuto terminare il lavori per il pollaio.
Improvvisamente il 28 aprile, pressato dall’opinione pubblica più che da risultati confortanti alla lotta la virus, con l’ennesima ordinanza il Presidente PAT ha permesso nuovamente l’uscita di casa per attività motoria; a parte una gaffe del comandante dei vigili urbani che confondeva il jogging con l’attività motoria facendo gran confusione nelle menti di cittadini esausti, finalmente abbiamo messo i piedi fuori di casa.
Ho corso come un matto nei boschi dietro casa, ricavandomi un percorsino divertente che utilizzerò come test nei mesi futuri: ho incontrato parecchie persone ma al grido di “Libertà!” non rispondevano entusiaste. A giudicare dal loro stupore al mio entusiasmo era gente che si è sempre mossa!
Il primo fine settimana di libertà ci si è potuti muovere solo entro il proprio comune e a piedi, perciò mi sono dedicato all’esplorazione dei nostri confini a Ovest, prima la Marzola, poi la Voigolana.
Inutile dire che senza allenamento specifico mi sono frantumato le gambe.