Questo viaggio è dedicato a tutti quelli che, come me, hanno sempre sognato di realizzare una piccola avventura leggendo reportage o seguendo documentari alla televisione, ed hanno inoltre sempre pensato che fosse troppo difficile, troppo complicato, oppure semplicemente impossibile da conciliare con la normale vita lavorativa, con la famiglia e con tutti gli impegni della vita moderna.
Si tratta di una piccola avventura in mountain bike realizzata senza appoggio, con normale attrezzatura trovata sul posto, senza l’uso di strumenti o cibi particolari e basandosi su informazioni trovate in loco. Il tutto parte dall’idea di andare a visitare un paese enorme, l’Argentina appunto, non nella sua parte più famosa e turistica, la Patagonia, ma nella sua parte più povera e sconosciuta: la zona andina del Nord Ovest al confine con Bolivia e Cile; nella capitale regionale Salta (“Salta la Linda “ si dice in Argentina) mi aspetta Emiliano, una guida rafting che aveva lavorato con me in estate in Italia.Strappo tre settimane al datore di lavoro e mi dirigo subito a Salta; la città che conta mezzo milione di abitanti si stende in una regione sub tropicale contraddistinta da un clima umido e molto piovoso a circa 1100 metri di altitudine: è molto grande, anche perché non esistono palazzi ma solo caseggiati molto bassi, tutta concentrata intorno al Cerro S Bernardo, una piccola elevazione di circa 1500 metri sul livello del mare. L’impatto con la realtà cittadina è contraddittorio; da un lato una confusione totale di auto e moto senza targa, di autobus che affrontano gli incroci come se fossero ad un GP, dall’altra una popolazione tranquilla e rilassata, che non suona mai il clacson e non urla mai, che saluta sempre molto calorosamente e si fa in quattro per aiutarti. Grazie proprio a questa caratteristica dopo un pomeriggio di pellegrinaggio tra i vari tour operator trovo quello che cerco: un noleggio di biciclette; faccio conoscenza con Analia, una simpatica “saltena” che mi spiega come fare, cosa portare dietro per il giro che ho in mente. Sull’ascesa al passo Abra el Acay (4895 metri, meta del mio viaggio) noto un po’ di diffidenza da parte sua; mi chiede se fumo (è una discriminante??), se ho già salito quelle quote, e mi parla della Puna, un vocabolo che sarà ricorrente nei prossimi giorni; essi chiamano La Puna quella zona di altipiani andini sui 4000 metri, desertica, arida, battuta da un vento fortissimo che soffia regolarmente di pomeriggio dove, a seconda dell’umidità si dovrebbe avere uno scalino di pressione che provoca forti mal di testa, vomito, e tutti quei malanni d’alta quota tipici di una zona a quelle quote.
Obbietto alcune cose basandomi sulle mie conoscenze tecniche, con il risultato di dimostrarmi molto determinato e di convincere Analia della bontà delle mie intenzioni; mi suggerisce (in pratica mi obbliga) però di avvalermi di una guida per la parte più difficile del viaggio: una tappa di 80 km con partenza da 3800 metri ed ascesa al passo di 4895 metri.
Acconsento a tutto pur di partire, anche se, francamente, a caro prezzo per gli standard argentini, e le do appuntamento al giorno dopo per la consegna del materiale.
Nel pomeriggio noleggio una bici all’ostello e faccio un giro per i dintorni della città; colline verdissime punteggiate da ville coloniali dove scorrazzano i caratteristici llamas nei giardini, fanno ad contrasti ai paesi più poveri dove ci sono solo case di fango, bambini sporchi che giocano per strada, auto semidistrutte ma ancora marcianti, gente di tutti i tipi a bordo di vecchie biciclette Raleigh (quelle con i freni a stanghetta per intenderci). Approfitto per salire al Cerro San Bernardo, la meta degli sportivi “salteni” che qui si ritrovano per fare jogging dopo lavoro. La città si stende ai suoi piedi, ed in lontananza le prime cime della catena preandina si perdono nelle nubi. Passo la sera ed il giorno seguente frequentando gli amici di Emiliano; tutta gente molto simpatica e socievole, che mi giudica un pazzo solo per l’idea di fare un viaggio in bicicletta in quelle zone desertiche e di alta quota, invece che spassarmela in città, approfittando del clima, del cambio favorevole e soprattutto, delle belle ragazze locali. Il giorno dopo mi incontro ancora con Analia che mi porta il materiale; la sorpresa è tanta, trovandomi di fronte ad una mountain bike di era preistorica (quella che mi comprai con i primi risparmi nel 1987 era più leggera), con componentistica di scarso valore, con una sella da turista tedesco in ciclabile, e tutta una serie di amenicoli inutili, compresa una pompa a pedale (!) per gonfiare le camere d’aria che peserà un chilo. Analia inoltre mi informa dell’accordo con la Guida che mi raggiungerà che prevede un esborso ulteriore per un totale di circa 100 euro; non mi faccio scoraggiare (l’accordo verbale era per molto meno, me evidentemente hanno fiutato l’affare) e pago il tutto pur di partire, anche se per un giorno di lavoro alla guida lascio praticamente lo stipendio di un mese di una cassiera argentina.
La sera fervono i preparativi; prima della cena di saluto dei miei amici a base di asado (un po’ di carboidrati no?) controllo la mia attrezzatura che è così composta:
una bicicletta di dubbia marca ma di certo peso: 17 kg
-borse laterali e borsa manubrio portate dall’Italia
-materiale per riparazione bici compresa la famigerata pompa da 1.3 kg
-vestiti estivi e per l’alta quota (un completo invernale
-pronto soccorso portato dall’Italia
-4 litri di acqua
-un sacchetto di foglie di coca (scoprirete poi perché)
Tutti insistono per accompagnarmi per un tratto in auto, ma io parto il giorno seguente dalla città in direzione S. Antonio de Los Cobres, 3775 metri sul livello del mare lungo il tracciato del “Tren de las nubes”, il vecchio treno dei minatori che arriva fino al confine con il Cile a 4300 metri ora solo attrattiva turistica. I primi 22 km su asfalto scorrono via veloci, anche se devo ripetutamente fermarmi a regolare particolari della bici quale sella, pedali, borse; tutte piccole cose che so alla lunga possono dar fastidio.
Lo sterrato comincia a Campo Quijano, la “porta delle Ande”, dove mi fermo a comprare un po’ di cibo e a cambiare 50 pesos; in certe zone non si riesce proprio a cambiare denaro ed anche una somma come quella (pari a 15 euro) è difficile da cambiare proprio perché mancano i soldi.
Fuori dal paese comincia la valle, la strada si fa sterrata ed il paesaggio lentamente arido e secco; attraverso lentamente piccoli accampamenti di pastori fin a da arrivare ad Ingeniero Maury (dal nome del costruttore della strada) a 2600 metri dopo 77 km di pedalata. Qui procedo a cercare l’alloggio garantitomi da Analia e scopro che in paese non esiste nulla del genere, ed anche un ristorante si rivela essere né più che un negozio di pane e latte; girovagando per il posto conosco un po’ di persone ed una di queste si offre di ospitarmi: si tratta di un gaucho (una specie di cowboy della pampa, dai caratteristici pantaloni rigonfi ed il coltello fieramente alla cinta) che stringendomi forte la mano mi lascia a casa sua e se ne va.
Arriva la notte che nutro qualche dubbio sulla mia sicurezza: non fosse che sulla strada esiste un posto di blocco della polizia non so se mi fermerei da solo in un paesino sperduto; mentre la mia mente cerca di affrontare tutte le paure della prima notte noto una lampada alla finestra: impaurito mi nascondo nel sacco pensando “sono un sacco a pelo, sono un sacco a pelo…”, e quando sento aprire la porta comincio seriamente ad avere paura. Niente paura, è solo il fattore della casa che, avvertito dal gaucho di prima, mi chiede se voglio un mate per concludere la serata. Il mate è la tipica bevanda argentina; si tratta di un infuso di una erbe, che va bevuto in compagnia da un recipiente (molto spesso lavorato artigianalmente) mediante una cannuccia d’argento. La serata procede tra dialoghi impossibili visto il mio spagnolo ancora primitivo e lunghe sorsate di mate, ma in qualche modo ci capiamo.
Il giorno dopo per non forzare prevedo di arrivare solo fino a Santa Rosa de Tastil, a 3400 metri; faccio solo 44 km, perché lì voglio visitare un sito archeologico molto grande, ed un museo; ormai la pedalata procede tranquilla, ci sono lunghi pezzi di asfalto (tutta la ruta dovrebbe venir asfaltata fino al Cile entro il 2005) dove camion carichi sfrecciano veloci salutandomi con il clacson; è sabato e si vedono anche molti furgoni di turisti; il turismo andino sta prendendo piede in Salta, e la città è piena di tour operator che propongono viaggi di più giorni nella Puna, a visitare i salari, o solamente a visitare questi luoghi coloratissimi ed aridi. Da uno di questi furgoni, una specie di Unimog enorme con decine di persone sul tetto, ricevo un caloroso incitamento a continuare sulle salite più dure; non so se è l’altura, la salita, il sole, ma comincio ad avvertire una certa fatica. Mi fermo a fianco di un operaio che sta pulendo il ciglio dalle erbaccie e gli offro da bere; facciamo due chiacchere; gli chiedo la distanza, lui mi chiede da dove vengo e mi fa i complimenti; io sono qui per gioco, lui si muove per lavoro con una vecchia Remington che peserà 20 kg tutti i giorni lungo quella strada!!!
A Santa Rosa (quattro case, un piccolo museo ed una specie di ospedale con un lama che fa da guardia) trovo un vero “alojamento”, mi faccio una doccia e faccio un giro per le rovine; ci sono tre persone che lavorano, sono due geologi canadesi con una guida argentina che lavorano lì da mesi; stanno cercando minerali, ma oggi è il loro giorno di riposo e fanno un po’ di ricerca per hobby; una cosa tira l’altra e me li ritrovo nel mio stesso alloggio per cena; parliamo un misto inglese spagnolo (per loro anglofoni è molto difficile imparare le lingue latine e fanno fatica a comprendersi persino con la guida) e scopro che la guida andina è un caro amico del mio amico Emiliano. Al grido “ Que pequeno es el mundo!” mi offre un thé di coca; le foglie di coca sono molto usate in alta quota per combattere i disagi dell’altura e della fame, e sono masticate tutto il giorno da chi fa lavori pesanti o semplicemente fa l’autista; sono molto preziose in quelle zone, e la guida mi spiega che posso usarle anche come baratto se mi trovo senza soldi o spiccioli. Assaporo il thé con gusto…..la volta che le avevo masticate mi avevano lasciato la bocca amarissima per un giorno intero!!
La guida, che è stata tre volte sull’Aconcagua e fa questo lavoro da molto tempo, mi da preziosi consigli sui posti e mi da, per la prima volta, anche fiducia sulla possibilità di fare il passo in un giorno da S. Antonio; mi avverte anch’egli però della pericolosità della Puna e del fatto di attaccare il passo di buon mattino perché la Puna è più alta.
La mattina dopo parto presto con i loro incitamenti per S.Antonio; mi aspetta un passo a 4080 metri da dove comincia un lenta discesa fin al paese.
Sono in pieno deserto d’alta quota; intorno a me solo sterpaglie arse dal sole, qualche mulo che mi segue con lo sguardo ed il vento che comincia a farsi sentire; purtroppo la discesa non è come la pensavo: la strada, battuta dal vento, presenta tratti di sabbia dove la bici rallenta vistosamente (e così carica non è facile da controllare) e una serie infinita di piccoli dossi, alti non più di 5 cm, che provocano fastidiosissimi traballamenti e limitano la pedalata. Passi un km, passi due, ma dopo 15 km di dossi il sedere comincia a fare male e rallenta la marcia
Arrivo intorno alle una a S.Antonio, il primo obiettivo; situato a 3775 metri di quota in mezzo ad una conca arida, è abitato interamente da indios Quechua che parlano uno spagnolo approssimativo forse peggio del mio; le case sono di fango e ci sono solo pochi palazzi (la scuola, qualche albergo, il municipio); la gente qui è veramente povera, lo si vede da come è vestita, da come i bambini chiedono monete ai turisti come me, dalle cose rotte che la gente si ostina a da usare; girano in biciclette rovinate e senza freni, semplicemente perché non ci sono i soldi per aggiustarle ed il primo negozio si trova ad un giorno di viaggio. Lascio gli alberghi lussuosi di (frequentati peraltro da Avventure nel Mondo e da Donna Avventura) e mi scelgo un alojamento in centro al paese, dove una simpatica vecchietta mi offre una mezza pensione per il corrispettivo di 5 euro!!! Il pomeriggio mi faccio una partita a calcio d’alta quota con un gruppo di bambini (che fatica!!) a cui mi tocca comunque lasciare un po’ di moneta e la sera mi faccio finalmente una cena a base di riso e verdura nell’unico bar-ristorante-sala TV satellite-centro telefonico pubblico-sala internet del paese; gli Argentini si sa prediligono la carne (e che carne!) ma per uno che viaggia in bicicletta un pò di carboidrati vanno meglio. Sono l’unico occidentale e tutti mi notano; entrano, mi augurano “Provecio!” (buona appetito) e si ordinano la loro eterna bottiglia di Coca; qui più che birra la gente beve continuamente Coca Cola nonostante per gli standard locali sia anche molto cara.
Qualcuno timidamente si fa avanti offrendomi i suoi servigi come guida andina; sono molto stupiti del fatto che faccia un viaggio in bici in quella maniera; solitamente gli occidentali non si vedono in quel bar, arrivano in auto per fare qualche ascesa alle montagne della zona, alte fino a 6000 metri; faccio vedere loro le mie cartine, vecchie mappe dell’IGM argentino fotocopiatemi da Analia e ne rimangono stupiti; non sono abituati ad orientarsi con le mappe, ma per me occidentale sono una necessità. Alcuni mi lasciano il loro indirizzo mail per ricontattarli al prossimo viaggio; insisto con loro per sapere la loro preparazione, ma non ottengo risposte chiare e decido di lasciar perdere.
Il giorno dopo faccio un salto per acclimatarmi al Viaducto de la Povorilla a 4300 metri; si tratta di un’opera di vera ingegneria sul tracciato del “Tren de las Nubes”, costruito nel 1800 e lungo 224 metri; la pedalata, causa la sabbia ed i sempre presenti dossi, mi impegna notevolmente, ma quando raggiungo un contadino che pedala su una vecchia Remington con attaccato un carretto pieno di vettovaglie tutta la mia impresa subisce un ridimensionamento, ed i 44 km fatti mi sembrano pochini pochini.
La sera mi raggiunge Marcos, la guida speditami da Analia; si presenta con una GT agressor 3.0 abbastanza recente, ma la carica con delle pesantissime borse di pelle e pedala senza nessun equipaggiamento, non parliamo dei pantaloncini, ma nemmeno un contachilometri, un orologio, una bussola; durante la salita del mattino seguente al passo gli chiedo parecchie cose; distanze, altimetrie, cime di monti, ma ottengo solo risposte vaghe: per essere la mia guida me lo sto portando dietro un po’ a spasso. A metà salita comincia ad accusare la quota (essendo salito in pullman da Salta il giorno prima) e lo lascio per procedere con il mio passo; mi trovo inaspettatamente bene e quando intravedo il cartello del passo arrivo anche ad accelerare.
Sulla sommità la soddisfazione e tanta, aspetto Marcos per fargli una foto ed insieme festeggiamo con una birra portata per l’occasione, mi avverte che la parte più dura comincia adesso ed ha pienamente ragione; 46 km di discesa lungo la ruta 40; lo so che a tutti verrà in mente la Patagonia, Bruce Chatwin e compagnia bella, ma la strada qui e una polverosissima stradina che scende tra mille tornanti una valle stretta e coloratissima; a circa 4000 metri di quota (io sì che ho un altimetro) troviamo una capanna di pastori; ne esce una ragazza carinissima che tutta contenta ci offre un thé, siamo le prime persone che vede transitare da una settimana; rifiutiamo il thé per il troppo caldo ma le facciamo compagnia per un po’; ci fa assaggiare della carne di pecora che ha messo a seccare, veramente gustosa.
Il caldo si fa insopportabile, approfittiamo di alcuni guadi per rinfrescarci completamente mentre procediamo lungo la tortuosa stradina; solo branchi di lama interrompono ogni tanto la nostra discesa.
si leva un forte vento contrario che ci complica ulteriormente la vita: dopo tre ore e mezza arrivati a La Poma ci godiamo una meritata birra. Si tratta di un paesino di contadini a 3000 metri di quota dove un italo-piemontese ha aperto un alojamento grazie agli incentivi del governo per le zone disagiate; ci informa che l’IGM argentino ha rivalutato il passo a 5007 metri con nostra somma soddisfazione (la mia guida casca dalle nuvole), ma il cartello deve ancora essere cambiato; ci dice inoltre che la traversata è abbastanza comune e che un olandese con una “Bianci” ci ha impiegato solo 7 ore da San Antonio a lì; pazienza, sarà stato senza carico.
Il giorno dopo scendiamo la valle ancora fino a Cachi, a 2600 metri di quota; la valle è molto bella e selvaggia, popolata da contadini che coltivano la terra rossastra che sembra molto fertile; purtroppo la sella sbagliata ed il gran caldo mi hanno triturato ben bene il posteriore facendomi venire una piaga che mi da un gran fastidio. Saluto la “guida” Marcos ed il giorno dopo accorcio il tragitto prendendo un pullman fino a Cafayate, un paesino a 1700 metri di quota famoso per i suoi vigneti; i pullman sono l’unica cosa veramente precisa in Argentina, ed anche questo non fa eccezione; parte preciso preciso alle 6 di mattina e quasi quasi lo perdo; carico la bici sul tetto e mi faccio largo tra campesinos carichi di borse che vanno verso la città. Il paesaggio è meraviglioso, ed arrivati alla Quebrada de las Flechas, dove centinai di pinnacoli erosi dal vento sembrano freccie spuntate dalla sabbia, chiedo di fare una sosta per fare un po’ di foto turistiche.
Ho un po’ di rimpianto per non riuscire a pedalare immerso in questi splendidi scenari, anche se la sabbia presente sulla strada mi avrebbe reso la vita in bici molto complicata.
Arrivato nel primo pomeriggio a Cafayate ne aprofitto per fare un giro molto istruttivo per le cantine della zona; si produce un ottimo Merlot, un otttimo Cabernet ed anche dei moscati veramente dolcissimi e delicati; ne compro alcune bottiglie e mi attrezzo per spedirle (portarle in bici sarebbero a rischio, non di rottura, ma di esser scolate ben bene!!) e scopro amaramente che le Poste Argentine, un degli enti privatizzati a suo tempo dal governo, sono incredibilmente care rispetto a tutto il resto.
Il giorno dopo mi preparo un itinerario soft: visita a Quilmes, un agglomerato pre-ispanico che per ultimo cedette all’invasione spagnola e la visita alle cascate di Cafayate: la valle, molto bella, sembra secca ma in realtà è percorsa da numerosi rivoli che scendono dalla montagna; in valle non piove quasi mai, ma i fiumi non sono mai secchi, tutto il contrario rispetto alla zona di San Antonio.
Le rovine di Quilmes sono enormi; il popolo ivi residente, prima clonizzato dagli Incas, fu poi assediato e preso per fame dagli Spagnoli; vinto, fu interamente deportato in un quartiere-ghetto di Buenos Aires e rifiutò l’integrazione; gli ultimi discendenti morirono nei primi del 900. La guida indios mi accompagna orgogliosa attraverso le rovine dove pascolano i llamas per poi condurmi, una volta scoperta la mia provenienza, alla visione di Lazio-Juve direttamente sulla TV satellite del museo…incredibile!!!
Il ritorno alla cittadina si rivela più difficile del previsto; il solito fortissimo vento si è levato nel pomeriggio, e la sabbia copre ampi tratti persino della strada asfaltata; arrivo al mio ostello con la faccia veramente consumata dalla sabbia. Un ragazzo francese mi trascina fuori dall’ostello per andare a cena fuori in un locale veramente carino; riesco incredibilmente ad ingoiare una costata di manzo grande più o meno come la mia coscia…speriamo che domani mi serva!!! Egli è in giro in Sud America da oltre due mesi ed è desideroso di conoscere come si è evoluta la realtà europea…del calcio!!! Mi tempesta di domande sulle formazioni italiane alle quali sinceramente non riesco ad essere esauriente.
Il giorno dopo parto speranzoso per la Quebrada de Cafayate, la lunga valle costellata di formazioni rocciose incredibili: El Anfiteatro, Los Castillos, La Garganta del Diablo, El Fraille, Las Dunas sono erosioni della roccia provocate dal mare che un tempo copriva queste rocce di dimensioni inimmaginabili ed incredibili. Di fronte ad ognuna sostano i pullman di turisti e ci sono mille mercatini di artigianato e paccottiglia varia; mi fermo poco perché i km sono tanti: 90 in tutto, anche se su asfalto mi fanno dimenticare le pene dei giorni precedenti.
Mi fermo ad Allemania, un borgo ormai quasi disabitato, sorto un tempo per iniziativa di coloni tedeschi lungo la ferrovia ormai in disuso; a fatica trovo un altro alojamento, in realtà veramente spartano, ma avendo cominciato a piovere non mi va di proseguire; siamo ormai in pianura, ed il contatto “fisico” con l’aria umida ed il caldo mi fa faticar più del previsto; è veramente incredibile come cambino le condizioni climatiche in così poco spazio qui, tanto da apprezzarle anche con un mezzo lento come la bicicletta (o meglio, lento come il sottoscritto!!!).
La mattina dopo parto indeciso se tornare a Salta oppure s tagliare per la Cresta dell’Obispo; si tratta di una zona che taglia diametralmente l’anello che ho fatto, alzandosi fino a circa 3500 metri di quota; man mano che pedalo, rinvigorito dalla giornata ed ormai in pieno delirio di onnipotenza, al paese di Chorrillos faccio provviste, telefono ad Analia per dirle che sto via con il suo “prezioso” mezzo ancora un paio di giorni; mi risponde preoccupata, che la Guida Marcos è tornata stanca dal viaggio e mi chiede se va tutto bene; dico che non ci sono problemi e lei insiste nel dire che non sono normale e che è contenta di non essere venuta con me, altrimenti si sarebbe stancata troppo…boh! Se solo conoscesse certi mostri che pedalano da noi in Trentino!
Mi inoltro nuovamente in una di queste valli lunghissime che portano in quota; curva dopo curva scopro case sparse, scuole isolate per pastori, con una vegetazione ancora fitta; mi fermo alla Osterai El Maray, punto di sosta per tutti in quelle zone desolate; bus, turisti, pulmini di tour operator si fermano lì e tutti sono curiosi di scoprire dove vado.
Il giorno dopo con una giornata un po’ incerta parto per l’ascesa: mi aspettano 22 km di curve e tornanti, una specie di Stelvio sterrato; il paesaggio è incredibile, anche se a causa della persistente siccità di alcune zone non è proprio come l’avevo vista in fotografia; sopra di me volteggiano numerosi avvoltoi: li guardo con aria di sfida ed al grido “Non mi avrete!” accelero verso il passo.
Man mano che mi avvicino il tempo volge al brutto, e quando scollino sono costretto ad indossare tutto quello che ho; sono incerto, ormai in piena bufera ,se procedere verso il Parco de Los Cardones, una distesa arida di cactus protetti dallo stato, dove mi aspetta sorniona la Recta del TinTin, una retta 13 km battuta sempre da vento contrario, oppure se volgere la bici e tornare indietro.
Aspetto una mezzora al riparo di una capanna il passaggio di un autobus in ritardo oppure di un pulmino di turisti, poi desisto, giro le ruote e mi avvio in discesa; la cosa non risulta però facile ,e dopo una buona ora sono di nuovo alla osteria El Maray, dove mi faccio una doccia calda e mangio la zuppa locale, il Locro, un minestrone di verdure e carne condita con porro fresco veramente nutriente.
Il giorno dopo, visto il perdurare del maltempo, me ne torno mestamente a Salta sotto una pioggerellina calda ed appiccicosa.
Il mio viaggio è finito, ed essendo alla prima esperienza di viaggiatore solitario posso ritenermi più che soddisfatto.